Isole Salomone – Il vero Spread !
Category : Immagini e racconti di viaggio
Corso accelerato per insegnare ad umani tecnologizzati come imparare a vivere solo con quello che la natura ci offre.
I docenti? Gli KWAIO
Ronnie Butala ci disse:”…Sarete i primi bianchi che vedranno…”. “Mah…” pensai dubbioso che mi stesse prendendo in giro.
Nel 2012, in un’isola (Malaita – SOLOMON Islands) che,tutto sommato, non sembra del tutto fuori dal mondo, non pensavo potessero esistere etnie ancora così isolate da non avere avuto, fino ad ora, contatti con la nostra civiltà.
Sugli Kwaio, in effetti, non esiste che una scarsissima letteratura e, anche in rete, le informazioni sono pochissime. Solo qualche voce di amici viaggiatori raccontava di questa piccola comunità che, contro tutto e tutti, si ostina a vivere secondo le sue tradizionali regole di vita.
Condizioni ideali per andare ad approfondire di persona.
– Prima della partenza molti amici, sapendo che saremmo ritornati in Melanesia per il quarto anno consecutivo, pensavano che saremmo andati alla ricerca di spiagge tropicali, mare da sogno e paradisi perduti. Non è stato proprio così.
– Organizzare il viaggio è stato semplicissimo. In pratica, dall’Italia, non si può programmare nulla. Molte località non sono nemmeno raggiunte dalla linea telefonica terrestre e non sono contattabili.
Nessun sito internet o agganci tramite agenzie turistiche locali; non ce ne sono molte e quelle che ci sono offrono servizi per i (pochi) ricchi subacquei australiani a caccia dei relitti delle navi della flotta americana affondata di fronte ad Honiara, capitale delle isole Salomone.
Quindi, “…On the road again, forever!”
– Avventure ci organizza uno spettacolare piano di voli con Emirates che in 36 ore ci porterà ad Honiara e poi… si vedrà. Gruppo piccolo, 8 in totale, tutti (o quasi) motivatissimi e consapevoli dei disagi cui saremmo potuti andare incontro. L’unica imprescindibile necessità, senza la quale non si sarebbe potuto raggiungere il risultato, era una conoscenza, un aggancio sul posto che potesse introdurci in quel delicato sistema di rapporti che è il villaggio di un’etnia semi primitiva.
La persona che crea il contatto deve essere amante delle sue origini, profondo conoscitore delle tradizioni, conosciuto, accettato e rispettato dagli indigeni, e con il savoir faire giusto per fare in modo che la nostra intrusione nel loro microcosmo possa essere meno traumatica possibile. Abbiamo individuato in Ronnie Butala questa persona.
Lo abbiamo scelto anche e soprattutto perché è l’unico a Malaita ad avere un profilo su Facebook e ad avere risposto al mio messaggio. La foto sul profilo è di un giovane melanesiano con i dreadlocks biondi, sorridente e gioviale. Approvato!
Ci assicura di poterci portare ai villaggi Kwaio, verrà ad aspettarci ad Honiara.
– Le isole Salomone non sono molto conosciute. Solo in pochi le sanno collocare sul planisfero e quei pochi spesso ne hanno sentito parlare a causa delle tragiche vicende legate alla seconda guerra mondiale, soprattutto per la battaglia di Guadalcanal, l’isola principale dell’arcipelago.
Honiara, capitale dello stato, è stata infatti scenario di un epico scontro fra la flotta americana e quella giapponese.
Tutti sappiamo com’è andata a finire: gli Americani hanno preso un sacco di mazzate nella Battaglia del Mar dei Coralli, di fronte all’isola di Savo; molte navi, comprese due portaerei, una corazzata e molti altri fra incrociatori e scafi da battaglia sono stati affondati dai Giapponesi e giacciono sui fondali prospicienti la capitale in numero talmente grande da avere creato l'”iron bottom sound”, il fondale lastricato di ferro.
Gli Americani si rifecero subito dopo, intercettando e decifrando le comunicazioni nemiche.
Conseguenza di questa supremazia tecnologica fu la definitiva sconfitta Giapponese.
Le Solomon, proprio per questi motivi, sono una meta piuttosto conosciuta e ambita dai subacquei di tutto il mondo. Le bellezze di queste isole, però, non si limitano ai fondali. Purtroppo, vuoi per la lontananza da tutti i paesi occidentali, vuoi per la scarsissima organizzazione e offerta turistica, sono frequentate pochissimo.
Vi rendete conto che state andando in una nazione poco conosciuta già all’aeroporto di partenza, quando le hostess del check in vi guarderanno stupite e dovranno controllare gli elenchi delle sigle degli aeroporti perché probabilmente non hanno mai fatto un’accettazione per Honiara.
È capitato sia a Malpensa che a Fiumicino.
Avrete la conferma di questa sensazione quando, gironzolando per il centro di Honiara, non vedrete altri bianchi a eccezione di pochi militari australiani e qualche contractor neozelandese.
Dal sito della Silent World, una compagnia di trasporto locale, vedo che ci sono connessioni quotidiane daGuadalcanal a Malaita. Perfetto! Atterriamo ad Honiara alle 20 e la mattina alle 6 siamo già con Ronnie Butala in attesa del traghetto sul molo principale di Point Cruz.
– Ronnie è stato di parola. Come promesso è venuto ad attenderci all’aeroporto, ma non l’ho riconosciuto subito; la foto del suo profilo FB è di almeno 20 anni fa. Nel frattempo, il fanciullo, si è sciupato parecchio! Di fronte a me trovo un barilotto di un quintale, pelato, con pochi denti sparpagliati in bocca e pure arrossati dal betel.
Mi saluta sorridente. Penso che siamo in una botte di ferro!
– La nave è grande e veloce, molto meglio delle previsioni. Inoltre c’è poco mare e si fila spediti. Dopo un’ora facciamo la prima sosta al molo di Tulagi, la prima capitale delle Solomon, poi attraversiamo il Sandfly Channell fino a sbucare nell’oceano aperto. Le onde diventano di 2 metri e ci accompagnano per 4 ore, fino a destinazione: Auki – Malaita.
Arriviamo verso mezzogiorno, sole di fuoco e 90% di umidità; ah!….dimenticavo la nausea…
Auki è la seconda città più importante delle Solomon. Tutti ci domandiamo come sia possibile, dato che si tratta di poco più di un villaggio, con strade in terra battuta e rari camion infangati posteggiati nei pressi del pontile, in attesa di essere caricati con le merci arrivate dalla capitale.
Troviamo alloggio in una delle tre guest house della città, felici che, perlomeno, ci sia l’acqua corrente, ma solo finché è in funzione la pompa.
– La zona abitata dagli Kwaio è sulla costa est, quella opposta rispetto ad Auki, e dobbiamo trovare un mezzo di trasporto per attraversare l’isola. Sono solo una settantina di kilometri e non sospettiamo
affatto che siano un mare di fango e pietre.In effetti, solo ora scopriamo che Malaita è una delle
isole più piovose del mondo! Grazie a Ronnie troviamo un pick up Toyota disposto a portarci ad Atori, sulla costa est, da dove cercheremo una barca per risalire il fiume fino alla zona Kwaio.
– Alle prime luci dell’alba siamo pronti a partire. Saliamo sul cassone dell’ hi-lux con tutte le provviste, soprattutto acqua, per qualche giorno di autonomia. Si parte! Percorsi 500 metri ci fermiamo a fare benzina. Grrrr….Da anni viaggio per il mondo è non ho ancora capito perché tutti (tutti!) gli autisti non fanno rifornimento di benzina prima di partire!
Di quella sosta approfittano una decina di autoctoni che saltano sul cassone o si appendono al roll bar perscroccare un passaggio. Intuiamo che quel tragitto non sarà agevole. Che l’intuizione sia azzeccata lo capiamo dopo aver percorso i primi kilometri, quando la strada, inizialmente sterrata, ma battuta bene, si trasforma in un pantano roccioso che si inerpica sulla montagna. Non sappiamo dove attaccarci dato che ci sono mani su ogni tipo di appiglio.
Durerà quattro ore. Durante questo tempo si alterneranno due temporali, uno dei quali sembrava il giorno del giudizio, e due ore di sole implacabile sulle nostre fronti.
– Arriviamo frolli all’imbarcadero di Atori. Sono le 14 e solo la gran fame ci impedisce di lamentarci delle ammaccature subite nel pick up. Alcuni ragazzini ci portano dei cocchi che beviamo avidamente; un chioschetto ci procura alcune scatolette di carne cinese …et voilà! Il pranzo è servito.
Nel frattempo arriva la banana boat che dovrà accompagnarci lungo il fiume. Facciamo conoscenza con Wesley. È il maestro della scuola locale. È uno Kwaio di fiume, cioè di quelli coperti con i vestiti e i più avvezzi alle comodità, se per “comodità” si intende avere una pentola o un machete, una zappa di ferro
o un paio di infradito cinesi.
Sembra una persona molto buona e parla un ottimo inglese. sempre a voce bassa. È molto gentile e la sua gentilezza stona parecchio con lo spadone di ebano che non abbandona mai, nemmeno per un istante. Dice che gli serve per autodifesa (!): notiamo, infatti, che tutti gli uomini portano al fianco chi una mazza, chi uno spadone, chi un arco con frecce. Tutti attrezzi rigorosamente in legno di ebano, nero, pesante e durissimo.
Dovremo fare tappa al suo villaggio sul fiume, perché non è possibile arrivare ai villaggi sulle colline prima che faccia buio. Sul fiume c’è più gente perché la vita è più facile. Si può pescare, ci sono le palme da cocco e la terra è molto fertile e facile da lavorare.
Anche per i religiosi cristiani, che per primi hanno “colonizzato” queste terre, è stato decisamente semplice convertire gli indigeni del fiume alle leggi della Bibbia.
Ma, come spesso accade, i montanari sono meno inclini ad assoggettarsi a culture diverse dalla loro.
L’esempio degli Kwaio è emblematico.
– Ad Atori saliamo sulla banana boat che ci porterà al villaggio sul fiume e anche stavolta subiamo l’arrembaggio di scrocconi che chiedono un passaggio. Per fortuna il tragitto è più breve e rimaniamo appollaiati “solo” per tre ore. Già eravamo frolli, ora siamo sfiniti.
Per fortuna il villaggio è accogliente.Subiamo il piacevole assalto dei bimbi che ci aiutano a
sbarcare i bagagli e ci mostrano i nostri spazi all’interno delle loro abitazioni.
La capanna, come ho detto, è accogliente. Il fiume è troppo lontano e ci portano alcuni secchi d’acqua per lavarci dal sudore e dalle creme solari che ci impiastricciano il volto. Per cena una sorpresa: dato che è una situazione particolare anche per loro, uccidono un maiale che cucinano alla melanesiana (cioè ripieno di patate dolci, avvolto in foglie di banano e sotterrato con pietre roventi).
Tutto ok: unica rimostranza, che però non ho avuto il coraggio di rivolgere al capo, sarebbe stata relativa ai materassi in gommapiuma di cui ci avevano dotati, che, per così dire, non erano proprio asettici. Piuttosto che combattere con le pulci che mi stavano mordendo, ho preferito dormire nel sacco lenzuolo, sopra una stuoia di bambù. Del resto quei materassi erano i loro e sarebbe stato certo scortese criticarli o lamentarsene.
Questa attenzione mi è costata decine di morsi di pulci alle braccia, che mi hanno ricordato quella notte per un paio di settimane.
– I galli ci danno il risveglio molto prima dell’alba…maledetti! La colazione è pronta! Cassava, taro e il maiale avanzato dalla sera precedente. Non c’è che dire, uno splendido inizio di giornata.
Partiamo con il solito barchino e per un’altra ora risaliamo il fiume. Oltre a Wesley (che sarà la nostra guida), stavolta ci sono 10 portatori, quattro barcaioli e due giovani donne, Betty e Mary, che faranno da accompagnatrici a Patrizia, l’unica femminuccia del gruppo.
Durante il percorso Wesley mi racconta degli avvenimenti cruenti accaduti in quei posti: “Vedi” mi dice, “in quell’ansa, il mese scorso, una donna è stata divorata da un coccodrillo”, e poi: “Sotto quell’albero, lo scorso anno, abbiamo trovato i resti di un prete ucciso e cannibalizzato…”.
Ometto alcuni dettagli al resto del gruppo.
Wesley continua nei racconti, dice che questi micro villaggi, formati al massimo da tre o quattro famiglie, hanno avuto contatti con i religiosi bianchi molto tempo fa e, più di recente, alcuni preti salomoniani hanno cercato di introdurre il cristianesimo in quelle zone dove la religione tradizionale legata al culto degli avi è molto radicata. Il risultato è stato drammatico: gli insegnamenti cristiani non sono stati graditi e lo scorso anno uno dei preti è stato trovato ucciso. Il responsabile dell’omicidio, un giovane e ambizioso capo villaggio, ha dovuto compensare quella vita con alcune collane di shell money, così come previsto dalle loro leggi tribali.
Anche Wesley ci conferma che saremo i primi bianchi ad andare in quella comunità. Per questo si raccomanda,ammonendoci di rispettare le loro norme di comportamento, i loro tabù.
Ce li elenca:
• Chiedere a lui prima di fare qualsiasi cosa.
• Chiedere a lui dove passare all’interno del villaggio perché alcuni passaggi sono tabù o riservati agli
uomini.
• Divieto assoluto di lasciare qualsiasi tipo di rifiuto, soprattutto fazzoletti o carta igienica.
• La toilette è lontana circa 100m dal villaggio ed è separata per donne e uomini. Divieto assoluto di
lasciare tracce organiche vicino al villaggio.
• Le donne per andare alla toilette devono denudarsi COMPLETAMENTE. Non è consentito indossare neppure le
calze e le scarpe: unica deroga è una foglia di banano per coprire le parti strategiche.
• Le donne mestruate devono usare una toilette separata.
• Le donne mestruate devono dormire in una capanna, appositamente adibita, adiacente, ma separata dalle
altre.
• Divieto di fotografare senza permesso e, in ogni caso,mai le donne.Ne prendiamo atto e gli garantiamo che faremo del nostro meglio.
– Sbarchiamo sulla sponda fangosa del fiume. Ciascuno di noi viene adottato da un portatore di zaino.
Gli altri due ragazzi e le donne porteranno l’acqua. Si parte.
Di fronte a noi la collina è coperta da una giungla fitta,tagliata per pochi centimetri da un piccolo sentiero che necostituisce l’unica via di accesso. La vegetazione non è molto varia: in basso palme da cocco e poche coltivazioni di taro e cassava, in alto arbusti dal tronco medio-grande e, soprattutto, bambù, di quel bambù grosso di fusto, ma sottile, appuntito e tagliente una volta spezzato.
Ovunque radici insidiose, pietre e un mare di fango.
Dopo pochi kilometri la salita diventa ripidissima e sempre più fangosa. Ci si mette anche il sole a rendere tutto più faticoso ma, pensiamo per consolarci, sempre meglio della pioggia!
In pochi minuti e varie scivolate siamo statue di fango. La rabbia (leggi invidia) maggiore è data dal confronto con i ragazzi che ci portano gli zaini: loro zompettano a piedi nudi fra una radice e una pozza di fango senza procurarsi neppure uno schizzo sui loro abiti cenciosi, mentre noi,con pedule professionali e abbigliamento tecnico, ci muoviamo come l’orso Yoghi in una pista di pattinaggio.
La salita è davvero pesante. A circa metà del percorso Antonio, 110kg, collassa e sviene. Lo reidratiamo con sali, zuccheri e barrette energetiche, e dopo una mezz’oretta è in grado (si fa per dire) di proseguire.
Lentamente, molto lentamente, con frequentissime soste e dopo quasi 5 ore di marcia, arriviamo nei pressi del villaggio. Wesley dice che “loro” ci stanno guardando già da parecchi minuti; ci fa un riepilogo delle norme da rispettare e ci incoraggia a proseguire! Ci apprestiamo a un ingresso trionfale fra le poche capanne che intravediamo nella boscaglia che, nel frattempo, si è diradata.
Ci sentiamo come la Colonna Starace all’ingresso di Gondar ai tempi dell’Impero.
Luca ed io siamo in testa al gruppo, tutti e due siamo alti circa due metri, ma quando, a pochi passi dalla prima capanna, una quindicina di omoni armati di mazze e con i corpi dipinti, sbucano come spettri arrabbiati dai cespugli, proviamo un certo disagio (…non lo nascondo…) È la loro accoglienza.
Sono completamente nudi, solo una foglia copre le parti intime.Onestamente, non mi aspettavo di trovarli così arretrati.Non sanno chi siamo e, soprattutto, cosa vogliamo da loro. Wesley interviene prontamente e ha un bel da fare a spiegargli che NON siamo preti, che NON vogliamo insegnare nulla e che, soprattutto, siamo in visita da loro solo per conoscerli e confrontare i nostri diversi modelli di vita.
Sembrano comprendere. L’espressione dei loro volti, in un attimo, da corrucciata e minacciosa, si trasforma in amichevole e il capo villaggio mi viene incontro con la mano aperta in segno di saluto.
Sì schierano in fila e facciamo le rispettive presentazioni.
Sono solo poche capanne per tutta la comunità. Una per il capo, una per gli uomini, una per le donne, una per discutere e consumare i pasti e un’altra per le donne mestruate. Ci riservano quella più grande, con il focolare al centro e due lunghe panche di bambù dove possiamo coricarci.
Subito ci offrono acqua in contenitori di bambù, sulla cui sommità è arrotolata una foglia di banano a formare un piccolo imbuto da cui bere.
Anche se consapevoli di correre un piccolo rischio, beviamo tutti dalle loro improvvisate borracce.
È ormai pomeriggio inoltrato e le attività fervono. Chi va a cogliere le noci di betel, chi va a prendere l’acqua, chi sta ad osservare curioso i nostri movimenti.
Noi stiamo attentissimi a rispettare le loro regole. Il problema si pone quando Patrizia deve andare alla
toilette. Si mobilitano le sue due accompagnatrici e le spiegano come comportarsi. Le vediamo sparire dietro le fronde e, dopo pochi secondi, i vestiti, tutti i vestiti di Patrizia (scarpe e calze comprese), sono appoggiati sulla roccia dell’empietá, dove si lasciano gli oggetti impuri.
Così, la poveretta, come mamma l’ha fatta, si infanga fino al ginocchio per fare una pipì…
La stessa trafila sarebbe stata necessaria anche nel caso di una “sortita” notturna. Nel qual caso sarebbe stata proibita anche la torcia sempre per il motivo che sarebbe tornata impura dal luogo meno sacro del villaggio Non ricordo di averla più vista bere fino al momento della nostra partenza dal villaggio.
Appena prima del tramonto arrivano le donne. Quelle non ancora sposate sono completamente nude. Quelle invece che hanno già preso marito indossano una piccola stringa rossa sui loro fianchi.
Non ho mai incontrato etnie così primitive. Niente ferro, plastica, tessuti, pentole o altre modernità.
Nessuna lanterna, candela o pezzi di carta. Non hanno nulla che non sia legato alla loro piccola terra.
La cosa più dura che possono avere è la pietra, poi hanno il legno, le ossa, le foglie.
Niente chiodi: tutte le diverse parti delle capanne sono tenute insieme con incastri oppure legate con corde vegetali.
Nessuna pentola: cucinano infilando gli alimenti (soprattutto patate e taro) nei loro bambù verdi e poi li
appoggiano sulle braci fino a carbonizzarli. Il gioco è fatto. Non hanno neppure il denaro; la natura offre tutto ciò che serve. Per acquistare una moglie oppure per i reati che comportano delle compensazioni si usano le collane di conchiglie, le shell money, oppure i maiali.
– Stavamo tutti sulla spianata di fronte alla casa degli uomini a guardare il tramonto quando due Kwaio arrivano dal sentiero. Li vediamo incoccare le frecce negli archi e avanzare sospettosi. Wesley gli cammina incontro agitando la sua durlindana e gridando frasi a noi incomprensibili,ma dal significato simbolico molto esplicito. Quegli uomini, semplicemente, non erano al corrente della nostra presenza; vedendoci, si sono impauriti e, non sapendo con chi avevano a che fare, hanno pensato di risolvere il
dubbio prendendoci a frecciate. Uno in particolare sembrava veramente furibondo per il fatto che noi fossimo nel loro villaggio. Lo vedevamo discutere molto animatamente con il capo villaggio gesticolando e mulinando la sua mazza in modo inquietante.
Da quel momento in poi lui per noi sarà “faccia da matto”. Dopo che gli spiegano le nostre pacifiche intenzioni si dà una calmata, ma ci rimarrà sempre alle terga per controllare i nostri movimenti.
– Nel frattempo le donne hanno finito di cuocere la cena e arrivano nella nostra capanna per servircela. Apparecchiano il pavimento di terra battuta con alcune foglie di banano e ci rovesciano sopra decine di tuberi fumanti fuoriusciti dai bambù carbonizzati. È la nostra cena.
Ci accorgiamo che ci stanno trattando meglio che possono confrontando i tuberi che mangeranno loro con quelli destinati a noi: a loro quelli grossi e duri mentre per noi quelli piccoli e teneri. Una cortesia decisamente apprezzabile.
Nonostante questi riguardi, non riusciamo a mangiare una tale quantità di farinacei! Inoltre integriamo tutti quei carboidrati con alcune barrette energetiche bruciandone le cartacce immediatamente dopo averle consumate, quasi di nascosto.
– Dopo aver cenato, la comunità si divide fra uomini e donne. Tutti e due i gruppi cantano canzoni che hanno come soggetto vecchi ricordi, abitudini e situazioni da tramandare ai più giovani.
E forse nulla più di una canzone o una nenia riesce a rendere vivi i ricordi e a continuare, così, la propria storia, la propria cultura. Unico modo per le popolazioni che non conoscono la scrittura.
Wesley, infaticabile, ci traduce il significato di quelle storie. Gli uomini cantano di combattimenti, di come costruire le case, di come lavorare la terra.
Le donne cantano, indovinate un po’, di amori impossibili; le ragazze sognano di essere acquistate come mogli da improbabili capi villaggio, disposti a pagarle con tantissime collane di shell money, di quelle brune, le più pregiate. Tutto il mondo è paese….
Ad un tratto, Wesley richiama la nostra attenzione. Le donne stanno improvvisando, in una sorta di free
styling, una nuova canzone che ha noi come soggetto.
Il testo dice che siamo arrivati fra loro come una tempesta, che ci siamo comportati bene, ma che siamo troppo diversi. Cantano di come ci hanno accolti, di quanto impegno hanno messo nel preparare il cibo e che, nonostante i loro sforzi, noi non lo abbiamo gradito (!!!), cantano del fatto che loro sono sporchi e nudi, mentre noi siamo vestiti e abbiamo la luce (le torce frontali). Cantano che forse non sarebbe sbagliato indossare i vestiti e adeguarsi a quanto dicono i preti avventisti, come hanno già fatto gli Kwaio di fiume. Rimaniamo basiti! Ho ripensato molto a quelle parole e, nonostante Wesley abbia sminuito la loro valenza, non riesco a dimenticare quelle donne e quella situazione.
– Ci ritiriamo nella capanna a discutere su quella canzone mentre “faccia da matto” entra con in mano una fiaccola accesa rischiando così di incendiare il tetto fatto con le foglie di sago. Gesticola e parla ad alta voce; non bisogna essere dei fenomeni per capire che non gli siamo simpatici e che non capisce cosa facciamo nella sua casa. Tutti cercano di contenerlo e, brontolando, esce per andare chissà dove.
Gli altri uomini si radunano intorno al fuoco e parlano per tutta (tutta!!) la notte!!!
Noi, coricati sui bambù, con cani e maiali che passano fra le nostre gambe e affumicati da un focolare di legna umida,cerchiamo di dormire. Inutilmente.
– Non posso scrivere del risveglio perché, in pratica, non c’è stato visto che non abbiamo chiuso occhio.
Ci alziamo comunque dai bambù alle prime luci dell’alba. I maledetti galli sono già operativi da qualche ora. Ci portano la colazione in casa: le patate avanzate la sera precedente riscaldate sul fuoco e insaporite col fumo. Stavolta cerchiamo di mangiarne il più possibile, ma non riusciamo comunque a finirle.
Ci prepariamo a scendere a valle. Tutti gli uomini si schierano in fila per salutare quegli intrusi che hanno portato lo scompiglio nella loro tranquilla quotidianità. Viene il turno di Faccia da Matto; porta al collo una strana collana con un conchiglione al centro e una serie di pendagli che sembrano denti umani.
Stamattina sembra meno scorbutico. Gli pongo la domanda.Con l’aiuto di Wesley mi dice che sono i denti di un suo nemico che lui ha ucciso in combattimento.
Così ha cresciuto il suo status sociale all’interno della comunità, anche se ha dovuto risarcire la famiglia della vittima con tre collane di shell money. Vedendomi interessato vorrebbe regalarmela, ma purtroppo, spiega, non me la può dare altrimenti dovrebbe uccidere un altro uomo e non può permettersi altre compensazioni in shell money.
Lo tranquillizzo dicendogli che non sono offeso e che non vorrei mai privarlo di un simile capolavoro.
Lui sembra sollevato, sorride gioviale e, piuttosto che niente, mi regala il suo spadone di ebano dicendo che è quello con cui ha recuperato i denti per la collana. Wesley consiglia di accettare.
– La discesa, come spesso accade, è peggiore della salita.Fortunatamente non è piovuto ed il fango si è parzialmente asciugato. Non scorderò comunque tutti i mozziconi di bambù tagliente che ci facevano da scivolosi scalini!…
In qualche situazione abusiamo della gentilezza e della disponibilità dei nostri accompagnatori facendoci aiutare. Dopo circa tre ore siamo al fiume. Le ginocchia tremano e le gambe vanno ormai per conto loro.
Infangati dal giorno precedente ci buttiamo nel fiume con tutti i vestiti addosso, scarpe comprese. La corrente e la sabbia li puliranno da tutta quell’argilla che abbiamo accumulato.
Il più è fatto. Non resta che riprendere la barca per Atori, il pick up per Auki e il traghetto per Guadalcanal. Facile a dirsi.
Questa storia, però, la facciamo finire qui. Potrei continuare a raccontare di come il barchino, a
causa della bassa marea, non riusciva a uscire dalla foce del fiume; o che pick up non è venuto a prenderci perché aveva bruciato la frizione e, a causa di questo imprevisto, abbiamo dovuto pernottare nella scuola di Atori, elemosinando cibo e acqua di cocco; oppure dell’insetto che ha fecondato la gamba di Roberto depositandogli all’interno qualche dozzina di piccole uova che poi abbiamo dovuto asportare creando una piccola voragine all’interno della sua coscia…
Ma, appunto, sono altre storie.
Poco importa se siamo stati i primi, i secondi o i terzi bianchi con cui sono entrati in contatto gli Kwaio del villaggio, quello che conta e che resta sono le emozioni che abbiamo provato insieme, ciò che abbiamo imparato da loro e ciò che gli abbiamo lasciato di noi.
Allora… Qual è il vero Spread? Quello che ci viene imposto dalle leggi del nostro mercato o quello che rende unico ogni popolo?
Quelle tra noi e gli Kwaio, secondo me, sono le vere e uniche differenze che bisognerebbe rispettare per vivere tutti nel migliore dei mondi possibili.
Carlo Castagna